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Paolo Borsellino

 
 
 

Paolo Borsellino

(Palermo, 19 gennaio 1940 – Palermo, 19 luglio 1992)

 

Paolo Borsellino intervista dopo morte Giovanni Falcone, siamo cadaveri che camminano
Falcone e Borsellino...Per non dimenticare
Falcone e Borsellino dicono chi è contro di loro
Intervista a Giovanni Falcone, 1992
Attentati a Giovanni Falcone e Paolo Borsellino
Roberto Saviano: ricordo di Falcone e Borsellino
Falcone e Borsellino dicono chi è contro di loro

Noi vogliamo mostrare i fatti così come sono, sulla base della documentazione che siamo riusciti a trovare nel web. L'unica cosa che vogliamo ricordare al lettore è che Falcone e Borsellino non avevano più una vita privata, erano costretti a vivere nelle caserme, anche con le proprie famiglie, o in compagnia perenne della propria scorta evitando i luoghi pubblici. Io credo che se la parola eroi ha un senso, non si può non attribuirla a Falcone e Borsellino! Santino Gattuso

 
 
In memoria di Falcone e Borsellino
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Primi anni
(fonte Wikipedia)

Figlio di Diego e di Maria Lepanto, Paolo Emanuele Borsellino nacque a Palermo nel quartiere popolare La Kalsa, in cui vivevano tra gli altri anche Giovanni Falcone e Tommaso Buscetta. La famiglia di Paolo era composta dalla sorella maggiore Adele (11 gennaio 1938-18 aprile 2011), il fratello minore Salvatore (1942) e l'ultimogenita Rita (1945).

Dopo aver frequentato le scuole dell'obbligo Borsellino si iscrisse al liceo classico "Giovanni Meli" di Palermo. Durante gli anni del liceo diventò direttore del giornale studentesco "Agorà".

L'11 settembre 1958 si iscrisse a Giurisprudenza a Palermo. Proveniente da una famiglia con simpatie politiche di destra, nel 1959 si iscrisse al Fronte Universitario d'Azione Nazionale, organizzazione degli universitari missini di cui divenne membro dell'esecutivo provinciale, e fu eletto come rappresentante studentesco nella lista del FUAN "Fanalino" di Palermo.

Il 27 giugno 1962, all'età di ventidue anni, Borsellino si laureò con 110 e lode con una tesi su "Il fine dell'azione delittuosa" con relatore il professor Giovanni Musotto. Pochi giorni dopo, a causa di una malattia, suo padre morì all'età di cinquantadue anni. Borsellino si impegnò allora con l'ordine dei farmacisti a mantenere attiva la farmacia del padre fino al raggiungimento della laurea in farmacia della sorella Rita. Durante questo periodo la farmacia fu data in gestione per un affitto bassissimo, 120.000 lire al mese e la famiglia Borsellino fu costretta a gravi rinunce e sacrifici. A Paolo fu concesso l'esonero dal servizio militare poiché egli risultava "unico sostentamento della famiglia".

Nel 1967 Rita si laureò in farmacia e il primo stipendio da magistrato di Paolo servì a pagare la tassa governativa.

Il 23 dicembre 1968 sposò Agnese Piraino Leto, figlia di Angelo Piraino Leto, a quel tempo magistrato, presidente del tribunale di Palermo. Dalla moglie Agnese ebbe tre figli: Lucia, Manfredi e Fiammetta.

 

La carriera in magistratura.

 

Nel 1963 Borsellino partecipò al concorso per entrare in magistratura; classificatosi venticinquesimo sui 171 posti messi a bando, con il voto di 57, divenne il più giovane magistrato d'Italia. Iniziò quindi il tirocinio come uditore giudiziario e lo terminò il 14 settembre 1965 quando venne assegnato al tribunale di Enna nella sezione civile. Nel 1967 fu nominato pretore a Mazara del Vallo. Nel 1969 fu pretore a Monreale, dove lavorò insieme ad Emanuele Basile, capitano dei Carabinieri. Proprio qui ebbe modo di conoscere per la prima volta la nascente mafia dei corleonesi.

Il 21 marzo 1975 fu trasferito a Palermo ed il 14 luglio entrò nell'ufficio istruzione affari penali sotto la guida di Rocco Chinnici.

Con Chinnici si stabilì un rapporto, più tardi descritto dalla sorella Rita Borsellino e da Caterina Chinnici, figlia del capo dell'Ufficio, come di "adozione" non soltanto professionale. La vicinanza che si stabilì fra i due uomini e le rispettive famiglie fu intensa e fu al giovane Paolo che Chinnici affidò la figlia, che abbracciava anch'essa quella carriera, in una sorta di tirocinio. Nel febbraio 1980 Borsellino fece arrestare i primi sei mafiosi tra cui Giulio Di Carlo e Andrea Di Carlo legati a Leoluca Bagarella. Grazie all'indagine condotta da Basile e Borsellino sugli appalti truccati a Palermo a favore degli esponenti di Cosa Nostra si scopre il fidanzamento tra Leoluca Bagarella e Vincenza Marchese sorella di Antonino Marchese, altro importante Boss. Il 4 maggio 1980 Emanuele Basile fu assassinato e fu decisa l'assegnazione di una scorta alla famiglia Borsellino.

 

Il pool antimafia

 

Un murales rappresentante i magistrati Falcone e Borsellino

In quell'anno si costituì il "pool" antimafia nel quale sotto la guida di Chinnici lavorarono alcuni magistrati (fra gli altri, Falcone, Borsellino, Giuseppe Di Lello, Leonardo Guarnotta, Giovanni Barrile) e funzionari della Polizia di Stato (Cassarà e Montana).

Nel racconto che ne fece lo stesso Borsellino, il pool nacque per risolvere il problema dei giudici istruttori che lavoravano individualmente, separatamente, ognuno "per i fatti suoi", senza che uno scambio di informazioni fra quelli che si occupavano di materie contigue potesse consentire, nell'interazione, una maggiore efficacia con un'azione penale coordinata capace di fronteggiare il fenomeno mafioso nella sua globalità. Uno dei primi esempi concreti del coordinamento operativo fu la collaborazione fra Borsellino e l'appena "acquisito" Di Lello, che Chinnici aveva voluto e richiesto in squadra: Di Lello prendeva giornalmente a prestito la documentazione che Borsellino produceva e gliela rendeva la mattina successiva, dopo averla studiata come fossero "quasi delle dispense sulla lotta alla mafia". E presto, senza che le note divergenze politiche potessero essere di più che mera materia di battute, anche fra i due il legame professionale si estese all'amicizia personale. Del resto era proprio la formazione di una conoscenza condivisa uno degli effetti, ma prima ancora uno degli scopi, della costituzione del pool: come ebbe a dire Guarnotta, si andava ad esplorare un mondo che sinora era sconosciuto per noi in quella che era veramente la sua essenza.

Nel pool andò formandosi una "gerarchia di fatto", come la chiamò Di Lello: fondata sulle qualità personali di Falcone e Borsellino, tributari di questa leadership per superiori qualità - sempre secondo lo stesso collega - di "grande intelligenza, grandissima memoria e grande capacità di lavoro"; ed i colleghi non l'avrebbero discussa, questa supremazia, anche per il timore di essere sfidati a sostituirli.

Tutti i componenti del pool chiedevano espressamente l'intervento dello Stato, che non arrivò. Qualcosa faticosamente giunse nel 1982, a prezzo però di nuovo altro sangue "eccellente", quando dopo l'omicidio del deputato comunista Pio La Torre, il ministro dell'interno Virginio Rognoni inviò a Palermo il generale dei Carabinieri Carlo Alberto Dalla Chiesa, che proprio in Sicilia e contro la mafia aveva iniziato la sua carriera di ufficiale, nominandolo prefetto. E quando anche questi trovò la morte, 100 giorni dopo, nella strage di via Carini, il parlamento italiano riuscì a varare la cosiddetta "legge Rognoni-La Torre" con la quale si istituiva il reato di associazione mafiosa (l'articolo 416 bis del codice penale) che il pool avrebbe sfruttato per ampliare le investigazioni sul fronte bancario, all'inseguimento dei capitali riciclati; era questa la strada che Giovanni Falcone ed i suoi colleghi del pool maggiormente intendevano seguire, una strada anni prima aperta dalle indagini finanziarie di Boris Giuliano (sul cui omicidio investigava il capitano Basile quando fu a sua volta assassinato) a proposito dei rapporti fra il capomafia Leoluca Bagarella ed il losco finanziere Michele Sindona.

Il 29 luglio 1983 fu ucciso Rocco Chinnici, con l'esplosione di un'autobomba, e pochi giorni dopo giunse a Palermo da Firenze Antonino Caponnetto. Il pool chiese una mobilitazione generale contro la mafia. Nel 1984 fu arrestato Vito Ciancimino, mentre Tommaso Buscetta ("Don Masino", come era chiamato nell'ambiente mafioso), catturato a San Paolo del Brasile ed estradato in Italia, iniziò a collaborare con la giustizia.

Buscetta descrisse in modo dettagliato la struttura della mafia, di cui fino ad allora si sapeva ben poco. Nel 1985 furono uccisi da Cosa Nostra, a pochi giorni l'uno dall'altro, il commissario Giuseppe Montana ed il vice-questore Ninni Cassarà. Falcone e Borsellino furono per sicurezza trasferiti nella foresteria del carcere dell'Asinara, nella quale iniziarono a scrivere l'istruttoria per il cosiddetto "maxiprocesso", che mandò alla sbarra 475 imputati. Si seppe in seguito che l'amministrazione penitenziaria richiese poi ai due magistrati un rimborso spese ed un indennizzo per il soggiorno trascorso.

 

Senza il camino fa freddo...

 

Pochi giorni prima di essere assassinato, Borsellino incontrò lo scrittore Luca Rossi cui raccontò diversi aneddoti della sua esperienza professionale, fra i quali uno riguardante degli accertamenti che insieme con Falcone conducevano in merito ad alcune delle rivelazioni di Buscetta. Don Masino aveva descritto minuziosamente la villa dei cugini Salvo, e questa descrizione, cruciale per attestare l'attendibilità del teste (ed ancora più cruciale visto quanto questo particolare teste stava risultando essenziale nell'azione complessiva del pool, che su queste spendeva la sua credibilità operativa), parlava di un grande salone che aveva al centro un grande camino. Durante il sopralluogo nella villa, però, quasi tutto corrispondeva al racconto del pentito, meno che il camino, che non c'era.

Falcone allora, guardando costernato Borsellino, fece il gesto della pistola alla tempia e gli disse "adesso possiamo spararci tutt'e due". La discrepanza poteva infatti in rapida successione rendere inattendibile il teste, privare l'impianto dell'indagine di uno dei suoi tasselli centrali, esporre l'intero pool alle accuse già ventilate di approssimazione professionale o, peggio, di intenti persecutori nei confronti di onesti cittadini.

Borsellino avvicinò il custode della villa e, dopo averci chiacchierato di cose insignificanti, ad un certo punto gli chiese per curiosità cosa usassero per scaldarsi d'inverno. Il custode rispose: "Col camino. Ma d'estate lo spostiamo in giardino".

Parallelamente si impegna all'interno degli organismi di rappresentanza dei giudici, come esponente di Magistratura Indipendente.

 

A Marsala

 

Borsellino chiese ed ottenne (il 19 dicembre 1986) di essere nominato Procuratore della Repubblica di Marsala. La nomina superava il limite ordinariamente vigente del possesso di alcuni requisiti principalmente relativi all'anzianità di servizio.

Secondo il collega Giacomo Conte la scelta di decentrarsi e di assumere un ruolo autonomo rispondeva ad una sua intuizione per la quale l'accentramento delle indagini istruttorie sotto la guida di una sola persona esponeva non solo al rischio di una disorganicità complessiva dell'azione contro la mafia, ma anche a quello di poter facilmente soffocare questa azione colpendo il magistrato che ne teneva le fila; questa collocazione, "solo apparentemente periferica", fu secondo questo autore esempio della proficuità di questa collaborazione a distanza.

Di parere difforme fu Leonardo Sciascia, scrittore siciliano, il quale in un articolo pubblicato su Il Corriere della Sera il 10 gennaio del 1987, si scagliò contro questa nomina invitando il lettore a prendere atto che "nulla vale più, in Sicilia, per far carriera nella magistratura, del prender parte a processi di stampo mafioso", a conclusione di un'esposizione principiata con due autocitazioni. Si tratta della nota polemica sui cosiddetti "professionisti dell'antimafia". Borsellino commentò (o lo citò) solo dopo la morte di Falcone, parlando il 25 giugno 1992 ad un dibattito, organizzato da La Rete e da MicroMega, sullo stato della lotta alla mafia dopo la Strage di Capaci: "Tutto incominciò con quell’articolo sui professionisti dell'antimafia".

 

« Il vero obiettivo del CSM era eliminare al più presto Giovanni Falcone »

(Durante il Convegno del La Rete del 25 giugno 1992)

 

« Quando Giovanni Falcone solo, per continuare il suo lavoro, propose la sua aspirazione a succedere ad Antonino Caponnetto, il CSM, con motivazioni risibili gli preferì il consigliere Antonino Meli. Falcone concorse, qualche Giuda si impegnò subito a prenderlo in giro, e il giorno del mio compleanno il CSM ci fece questo regalo. Gli preferì Antonino Meli.»

 

(Durante il Convegno del La Rete del 25 giugno 1992)

 

Secondo Umberto Lucentini, uno dei suoi biografi, Borsellino si era invece reso conto della crescente importanza delle cosche trapanesi, e di Totò Riina e Bernardo Provenzano, all'interno della rete criminale Cosa Nostra, che ad esempio intorno a Mazara del Vallo e nel Belice, facevano ruotare interessi notevoli che occorreva seguire da vicino.

 

La fine del Pool ed il ritorno a Palermo

 

Nel 1987, mentre il maxiprocesso si avviava alla sua conclusione con l'accoglimento delle tesi investigative del pool e l'irrogazione di 19 ergastoli e 2.665 anni di pena, Caponnetto lasciò il pool per motivi di salute e tutti (Borsellino compreso) si attendevano che al suo posto fosse nominato Falcone, ma il Consiglio Superiore della Magistratura non la vide alla stessa maniera e il 19 gennaio 1988 nominò Antonino Meli; sorse il timore che il pool stesse per essere sciolto.

Borsellino parlò allora in pubblico a più riprese, raccontando quel che stava accadendo alla procura di Palermo. In particolare, in due interviste rilasciate il 20 luglio 1988 a la Repubblica ed a L'Unità, riferendosi al CSM, dichiarò tra l'altro espressamente: "si doveva nominare Falcone per garantire la continuità all'Ufficio", "hanno disfatto il pool antimafia", "hanno tolto a Falcone le grandi inchieste", "la squadra mobile non esiste più", "stiamo tornando indietro, come 10 o 20 anni fa". Per queste dichiarazioni rischiò un provvedimento disciplinare (fu messo sotto inchiesta). A seguito di un intervento del Presidente della Repubblica Francesco Cossiga, si decise almeno di indagare su ciò che succedeva nel palazzo di Giustizia.

Il 31 luglio il CSM convocò Borsellino, il quale rinnovò accuse e perplessità. Il 14 settembre Antonino Meli, sulla base di una decisione fondata sulla mera anzianità di ruolo in magistratura, fu nominato capo del pool; Borsellino tornò a Marsala, dove riprese a lavorare alacremente insieme a giovani magistrati, alcuni di prima nomina. Iniziava in quei giorni il dibattito per la costituzione di una Superprocura e su chi porvi a capo, nel frattempo Falcone fu chiamato a Roma per assumere il comando della direzione affari penali e da lì premeva per l'istituzione della Superprocura.

Nel settembre 1990 intervenne alla festa nazionale del Fronte della Gioventù a Siracusa, insieme al parlamentare regionale del MSI Giuseppe Tricoli, e agli allora dirigenti giovanili Gianni Alemanno e Fabio Granata.

Con Falcone a Roma, Borsellino chiese il trasferimento alla Procura di Palermo e l'11 dicembre 1991 vi ritornò come Procuratore aggiunto, insieme al sostituto Antonio Ingroia.

 

Il cammino segnato

 

Nel settembre del 1991, la mafia aveva già abbozzato progetti per l'uccisione di Borsellino. A rivelarlo fu Vincenzo Calcara, picciotto della zona di Castelvetrano cui la Cupola mafiosa, per bocca di Francesco Messina Denaro (capo della cosca di Trapani), aveva detto di tenersi pronto per l'esecuzione, che si sarebbe dovuta effettuare o mediante un fucile di precisione, o con un'autobomba. Assai onorato dell'incarico, che gli avrebbe consentito la scalata di qualche gradino nella gerarchia mafiosa, il mafioso attendeva l'ordine di entrare in azione come cecchino qualora si fosse propeso per questa soluzione.

Ma Calcara fu arrestato il 5 novembre e la sua situazione in carcere si fece assai pericolosa poiché, secondo quanto da lui stesso indicato, aveva in precedenza intrecciato una relazione con la figlia di uno dei capi di Cosa Nostra, uno sbilanciamento del tutto contrario alle "regole" mafiose e sufficiente a costargli la vita; se da latitante poteva ancora essere utilizzato per "lavori sporchi", da carcerato invece gli restava solo la condanna a morte emessa dall'organizzazione. Prima che finisse il periodo di isolamento, Calcara decise di diventare collaboratore di giustizia e si incontrò proprio con Borsellino, al quale, una volta rivelatogli il piano e l'incarico, disse: "lei deve sapere che io ero ben felice di ammazzarla". Dopo di ciò, raccontò sempre il pentito, gli chiese di poterlo abbracciare e Borsellino avrebbe commentato: "nella mia vita tutto potevo immaginare, tranne che un uomo d'onore mi abbracciasse".

Soltanto nel 2012 si è venuto a sapere, da una rivelazione rilasciata in tribunale del colonnello Umberto Sinico, sentito come testimone, che Borsellino non solo era a conoscenza di essere nel mirino di Cosa Nostra, ma che preferiva che non si stringesse troppo la protezione attorno a sé, così da evitare che Cosa Nostra scegliesse come bersaglio qualcuno della sua famiglia.

 

La candidatura alla presidenza della Repubblica e Capaci

 

Il pomeriggio del 19 maggio 1992, nel corso dell'XI scrutinio delle elezioni presidenziali, l'allora segretario del MSI Gianfranco Fini diede indicazione ai suoi parlamentari di votare per Paolo Borsellino come Presidente della Repubblica, che ottenne in quello scrutinio 47 preferenze.

Il 23 maggio 1992 nell'attentato di Capaci persero la vita Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e tre agenti della scorta, Antonio Montinaro, Vito Schifani e Rocco Dicillo.

« Guardi, io ricordo ciò che mi disse Ninni Cassarà allorché ci stavamo recando assieme sul luogo dove era stato ucciso il dottor Montana alla fine del luglio del 1985, credo.

Mi disse:

"Convinciamoci che siamo dei cadaveri che camminano". »

 

(Paolo Borsellino, intervista a Lamberto Sposini dell'inizio di luglio)

 

Dichiarazioni e rifiuti

 

Borsellino rilasciò interviste e partecipò a numerosi convegni per denunciare l'isolamento dei giudici e l'incapacità o la mancata volontà da parte della politica di dare risposte serie e convinte alla lotta alla criminalità. In una di queste Borsellino descrisse le ragioni che avevano portato all'omicidio del giudice Rosario Livatino e prefigurò la fine (che poi egli stesso fece) che ogni giudice "sovraesposto" è destinato a fare.

Alla presentazione di un libro alla presenza dei ministri dell'interno e della giustizia, Vincenzo Scotti e Claudio Martelli, nonché del capo della polizia Vincenzo Parisi, dal pubblico fu chiesto a Borsellino se intendesse candidarsi alla successione di Falcone alla "Superprocura"; alla sua risposta negativa Scotti intervenne annunciando di aver concordato con Martelli di chiedere al CSM di riaprire il concorso ed invitandolo formalmente a candidarsi. Borsellino non rispose a parole, sebbene il suo biografo Lucentini abbia così descritto la sua reazione: "dal suo viso trapela una indignazione senza confini"". Rispose al ministro per iscritto, giorni dopo: "La scomparsa di Giovanni Falcone mi ha reso destinatario di un dolore che mi impedisce di rendermi beneficiario di effetti comunque riconducibili a tale luttuoso evento".

 

La penultima intervista di Borsellino e le sue versioni

 

Due mesi prima di essere ucciso, Paolo Borsellino rilasciò un'intervista ai giornalisti di Canal+ Jean Pierre Moscardo e Fabrizio Calvi (21 maggio 1992). L'intervista mandata in onda da Rai News 24 nel 2000 era di trenta minuti, quella originale era invece di cinquantacinque minuti.

 

Lenzuoli dedicati a Giovanni Falcone e Paolo Borsellino

 

La trascrizione dell'intervista integrale si trova qui

« All’inizio degli anni Settanta Cosa Nostra cominciò a diventare un’impresa anch’essa. Un’impresa nel senso che attraverso l’inserimento sempre più notevole, che a un certo punto diventò addirittura monopolistico, nel traffico di sostanze stupefacenti, Cosa Nostra cominciò a gestire una massa enorme di capitali. Una massa enorme di capitali dei quali, naturalmente, cercò lo sbocco. Cercò lo sbocco perché questi capitali in parte venivano esportati o depositati all’estero e allora così si spiega la vicinanza fra elementi di Cosa Nostra e certi finanzieri che si occupavano di questi movimenti di capitali, contestualmente Cosa Nostra cominciò a porsi il problema e ad effettuare investimenti. Naturalmente, per questa ragione, cominciò a seguire una via parallela e talvolta tangenziale all’industria operante anche nel Nord o a inserirsi in modo di poter utilizzare le capacità, quelle capacità imprenditoriali, al fine di far fruttificare questi capitali dei quali si erano trovati in possesso »

(Paolo Borsellino, in quella intervista)

In questa sua ultima intervista Paolo Borsellino parlò anche dei legami tra la mafia e l'ambiente industriale milanese e del Nord Italia in generale, facendo riferimento, tra le altre cose, a indagini in corso sui rapporti tra Vittorio Mangano e Marcello Dell'Utri.

Alla domanda se Mangano fosse un "pesce pilota" della mafia al Nord, Borsellino rispose che egli era sicuramente una testa di ponte dell'organizzazione mafiosa nel Nord d'Italia. Sui rapporti con Silvio Berlusconi invece, benché esplicitamente sollecitato dall'intervistatore, si astenne da qualsiasi giudizio.

Paolo Guzzanti aveva sostenuto che l'intervista trasmessa da Rai News 24 era stata manipolata, i giornalisti della rete gli fecero causa, ma fu assolto. Vi era corrispondenza tra la cassetta ricevuta ed il contenuto trasmesso, ma non con il video originale. Alcune risposte erano state tagliate e messe su altre domande. Ad esempio, quando Borsellino parla di "cavalli in albergo" per indicare un traffico di droga, non si riferiva ad una telefonata fra Dell'Utri e Mangano come poteva sembrare dalla domanda dell'intervistatore (che faceva riferimento ad un'intercettazione dell'inchiesta di San Valentino, che Borsellino aveva seguito solo per poco tempo), ma ad una fra Mangano e un mafioso della famiglia Inzerillo.

Nel numero de L'Espresso dell'8 aprile 1994 fu pubblicata una versione più estesa dell'intervista.

L'intervista, e i tagli relativi alla sua versione televisiva, furono citati anche dal tribunale di Palermo nella sentenza di condanna di Gaetano Cinà e Marcello Dell'Utri:

« Un riferimento a quelle indagini si rinviene nella intervista rilasciata il 21 maggio 1992 dal Dott. Paolo Borsellino ai giornalisti Fabrizio Calvi e Jean Pierre Moscardo. In dibattimento il Pubblico Ministero ha prodotto la cassetta contenente la registrazione originale di quella intervista che, nelle precedenti versioni, aveva subito, invece, evidenti manipolazioni ed era stata trasmessa a diversi anni di distanza dal momento in cui era stata resa, malgrado l’indubbio rilievo di un simile documento. »

(Dalla sentenza di condanna di Dell'Utri Pag 431)

Nella sentenza fu poi riportato il brano dell'intervista relativo all'uso del termine "cavalli" per indicare la droga e sulle precedenti condanne di Mangano, in una versione ancora differente rispetto alle due già diffuse, trascritta dal nastro originale. Nella stessa sentenza era poi riportata l'intercettazione della telefonata intercorsa tra Mangano (la cui linea era sotto controllo) e Dell'Utri, relativo al blitz di San Valentino, in cui veniva citato un "cavallo", a cui aveva fatto riferimento il giornalista nelle domande dell'intervista a Borsellino. La sentenza specificava però che:

« Tra le telefonate intercettate (il cui tenore aveva consentito di disvelare i loschi traffici ai quali il Mangano si era dedicato in quegli anni) si inserisce quella del 14 febbraio 1980 intercorsa tra Vittorio Mangano e Marcello Dell’Utri.

È opportuno chiarire subito che questa conversazione, pur avendo ad oggetto il riferimento a “cavalli”, termine criptico usato dal Mangano nelle conversazioni telefoniche per riferirsi agli stupefacenti che trafficava, non presenta un significato chiaramente afferente ai traffici illeciti nei quali il Mangano era in quel periodo coinvolto e costituisce il solo contatto evidenziato, nel corso di quelle indagini, tra Marcello Dell’Utri e i diversi personaggi attenzionati dagli investigatori. »

Venerdì 18 dicembre 2009 Il Fatto Quotidiano pubblica il dvd Paolo Borsellino. L’intervista nascosta contenente la versione integrale, filmata, dell'intervista al giudice con una prefazione di Marco Travaglio.

 

La strage di via d'Amelio

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Il 19 luglio 1992, dopo aver pranzato a Villagrazia con la moglie Agnese e i figli Manfredi e Lucia, Paolo Borsellino si recò insieme alla sua scorta in via D'Amelio, dove viveva sua madre.

Una Fiat 126 parcheggiata nei pressi dell'abitazione della madre con circa 100 kg di esplosivo a bordo (semtex e/o tritolo), deflagrò al passaggio del giudice, uccidendo oltre a Paolo Borsellino anche i cinque agenti di scorta Emanuela Loi (prima donna della Polizia di Stato caduta in servizio), Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina. L'unico sopravvissuto fu Antonino Vullo, ferito mentre parcheggiava uno dei veicoli della scorta.

Emanuela Loi Vincenzo Li Muli Walter Eddie Cosina
Claudio Traina La scorta di Borsellino Emanuela Loi
La scorta di Borsellino

Pochi giorni prima di essere ucciso, durante un incontro organizzato dalla rivista MicroMega, così come in una intervista televisiva a Lamberto Sposini, Borsellino aveva parlato della sua condizione di "condannato a morte". Sapeva di essere nel mirino di Cosa Nostra e sapeva che difficilmente la mafia si lascia scappare le sue vittime designate.

Antonino Caponnetto, che subito dopo la strage aveva detto, sconfortato, "Non c'è più speranza...", intervistato anni dopo da Gianni Minà ricordò che "Paolo aveva chiesto alla questura – già venti giorni prima dell'attentato – di disporre la rimozione dei veicoli nella zona antistante l'abitazione della madre. Ma la domanda era rimasta inevasa. Ancora oggi aspetto di sapere chi fosse il funzionario responsabile della sicurezza di Paolo, se si sia proceduto disciplinarmente nei suoi confronti e con quali conseguenze".

Una settimana dopo la strage, la giovanissima testimone di giustizia Rita Atria, che proprio per la fiducia che riponeva nel giudice Borsellino si era decisa a collaborare con gli inquirenti pur al prezzo di recidere i rapporti con la madre, si uccise.

via D'Amelio: l'albero che ricorda il luogo dell'uccisione di Paolo Borsellino e della sua scorta

« Politica e mafia sono due poteri che vivono sul controllo dello stesso territorio: o si fanno la guerra o si mettono d'accordo. » (Lirio Abbate, Peter Gomez)

Strage via D'Amelio
Strage via D'Amelio Strage via D'Amelio Strage via D'Amelio
Strage via D'Amelio Albero Borsellino Strage via D'Amelio

Nell'introduzione del libro L'agenda rossa di Paolo Borsellino Marco Travaglio scrive:

« Oggi, quindici anni dopo, non è cambiato nulla. L’impressione è che, ai piani alti del potere, quelle verità indicibili le conoscano in tanti, ma siano d’accordo nel tenerle coperte da una spessa coltre di omissis. Per sempre. L’agenda rossa è la scatola nera della Seconda Repubblica. Grazie a questo libro cominciamo a capire qualcosa anche noi »

(Marco Travaglio)

Salvatore Borsellino, fratello di Paolo Borsellino, parla esplicitamente di "strage di Stato":

« Perché quello che è stato fatto è proprio cercare di fare passare l’assassinio di Paolo e di quei ragazzi che sono morti in via D’Amelio come una strage di mafia. [...] Hanno messo in galera un po’ di persone - tra l’altro condannate per altri motivi e per altre stragi - e in questa maniera ritengono di avere messo una pietra tombale sull’argomento. Devo dire che purtroppo una buona parte dell’opinione pubblica, cioè quella parte che assume le proprie informazioni semplicemente dai canali di massa - televisione e giornali - è caduta in questa chiamiamola “trappola” [...] Quello che noi invece cerchiamo in tutti i modi di far capire alla gente [...] è che questa è una strage di stato, nient’altro che una strage di stato. E vogliamo far capire anche che esiste un disegno ben preciso che non fa andare avanti certe indagini, non fa andare avanti questi processi, che mira a coprire di oblio agli occhi dell’opinione pubblica questa verità, una verità tragica perché mina i fondamenti di questa nostra repubblica. Oggi questa nostra seconda repubblica è una diretta conseguenza delle stragi del ‘92 »

(Salvatore Borsellino)

 

L'eredità

Un rosone in bronzo, opera di Tommaso Geraci, commemora insieme Falcone e Borsellino all'aeroporto loro dedicato di Palermo. Nell'iscrizione, si legge: "L'orgoglio della Nuova Sicilia"

« Io accetto la... ho sempre accettato il... più che il rischio, la... condizione, quali sono le conseguenze del lavoro che faccio, del luogo dove lo faccio e, vorrei dire, anche di come lo faccio. Lo accetto perché ho scelto, ad un certo punto della mia vita, di farlo e potrei dire che sapevo fin dall'inizio che dovevo correre questi pericoli.

Il... la sensazione di essere un sopravvissuto e di trovarmi in, come viene ritenuto, in... in estremo pericolo, è una sensazione che non si disgiunge dal fatto che io credo ancora profondamente nel lavoro che faccio, so che è necessario che lo faccia, so che è necessario che lo facciano tanti altri assieme a me.

E so anche che tutti noi abbiamo il dovere morale di continuarlo a fare senza lasciarci condizionare... dalla sensazione che, o financo, vorrei dire, dalla certezza, che tutto questo può costarci caro. »

(Paolo Borsellino, intervista a Sposini, inizio luglio 1992)

La figura di Paolo Borsellino, come quella di Giovanni Falcone, ha lasciato un grande esempio nella società civile e nelle istituzioni.

Alla sua memoria sono state intitolate numerose scuole e associazioni, nonché (insieme all'amico e collega) l'aeroporto internazionale "Falcone e Borsellino" (ex "Punta Raisi", Palermo), un'aula della facoltà di Giurisprudenza all'Università di Roma La Sapienza e l'aula del consiglio comunale della città di Castellammare di Stabia. Anche la Facoltà di Giurisprudenza dell'Università degli Studi di Brescia ha intestato una delle sue aule più suggestive di Palazzo dei Mercanti ai giudici Falcone e Borsellino.

« Un giudice vero fa quello che ha fatto Borsellino, uno che si trova solo occasionalmente a fare quel mestiere e non ha la vocazione può scappare, chiedere un trasferimento se ne ha il tempo e se gli viene concesso. Borsellino, invece, era di un'altra tempra, andò incontro alla morte con una serenità e una lucidità incredibili. »

Giuseppe Di Lello Leonardo Guarnotta Beppe Montana
Antonino Cassarà Pio La torre Carlo Alberto Dalla Chiesa
Boris Giuliano Antonino Caponnetto Antonio Ingroia
Emanuele Basile Rocco Chinnici
Leonardo Guarnotta Pio La Torre Carlo Alberto Dalla Chiesa
Rosario Livatino Boris Giuliano Paolo Borsellino e Ninni Cassarà
 
Aforismi di Paolo Borsellino

Palermo non mi piaceva, per questo ho imparato ad amarla. Perché il vero amore consiste nell'amare ciò che non ci piace per poterlo cambiare.

A fine mese, quando ricevo lo stipendio, faccio l'esame di coscienza e mi chiedo se me lo sono guadagnato.

E' normale che esista la paura, in ogni uomo, l'importante è che sia accompagnata dal coraggio. Non bisogna lasciarsi sopraffare dalla paura, altrimenti diventa un ostacolo che impedisce di andare avanti.

Chi ha paura muore ogni giorno, chi non ha paura muore una volta sola.

La lotta alla mafia, il primo problema da risolvere nella nostra terra bellissima e disgraziata, non doveva essere soltanto una distaccata opera di repressione, ma un movimento culturale e morale che coinvolgesse tutti e specialmente le giovani generazioni, le più adatte a sentire subito la bellezza del fresco profumo di libertà che fa rifiutare il puzzo del compromesso morale, dell'indifferenza, della contiguità e quindi della complicità.

Mi uccideranno, ma non sarà una vendetta della mafia, la mafia non si vendica. Forse saranno mafiosi quelli che materialmente mi uccideranno, ma quelli che avranno voluto la mia morte saranno altri.

Parlate della mafia. Parlatene alla radio, in televisione, sui giornali. Però parlatene.

Politica e mafia sono due poteri che vivono sul controllo dello stesso territorio: o si fanno la guerra o si mettono d'accordo.

Se la gioventù le negherà il consenso, anche l'onnipotente e misteriosa mafia svanirà come un incubo.

Rita Atria

« Prima di combattere la mafia devi farti un auto-esame di coscienza e poi, dopo aver sconfitto la mafia dentro di te, puoi combattere la mafia che c'è nel giro dei tuoi amici, la mafia siamo noi ed il nostro modo sbagliato di comportarsi. Borsellino, sei morto per ciò in cui credevi ma io senza di te sono morta. »

A venti anni dalla morte di Rita Atria, avvenuta il 26 luglio 1992, è doveroso ricordarla e, soprattutto, sottolineare il coraggio di questa ragazzina di 17 anni impegnata a lottare contro la mafia.

Rita, pur essendo cresciuta in una famiglia mafiosa, scelse la strada della giustizia decidendo di rompere la rete di omertà che teneva tutti impigliati e di vendicare il padre ed il fratello uccisi dai boss mafiosi collaborando con la giustizia, anche se tutto questo, alla fine, le costerà la vita facendola diventare un’altra delle tante vittime di Cosa Nostra.

Nata a Partanna in provincia di Trapani il 4 settembre 1974, ha soltanto undici anni quando nel 1985 suo padre, Vito Atria, viene assassinato in una faida mafiosa ed il 24 giugno 1991, quando ne ha quasi diciassette, anche il fratello Nicola viene ucciso dai boss mafiosi.

La cognata Piera Aiello, dopo l’uccisione del marito Nicola, collabora con la giustizia e le sue deposizioni permettono di avviare indagini che si concludono anche con alcuni arresti. Ovviamente, Piera è costretta a lasciare Partanna e viene trasferita in una località segreta.

Dopo le dichiarazioni della cognata per Rita iniziano giorni durissimi in qualità di “parente di una collaboratrice di giustizia” in un paese che non perdona tale “infamia” ed anche il fidanzato, Calogero Cascio, l’abbandona per tale motivo.

Ma Rita con il suo cuore puro, sogna un mondo migliore in cui possa trionfare la giustizia, senza soprusi e violenza, dove la mafia sia definitivamente sconfitta e cancellata ed affida questi pensieri al suo diario non avendo più nessuno con cui confidarsi.

Intanto, dopo la morte del fratello, inizia a maturare in lei il desiderio di rivolgersi alla giustizia e, nonostante le minacce della madre, che poi la ripudierà per aver “tradito l’onore della famiglia”, una mattina di novembre del 1991, con una forza straordinaria per una ragazzina della sua età, prende la decisione di vendicare l’assassinio del padre e del fratello rivolgendosi alle autorità competenti e denunciando il sistema mafioso, facendo nomi e raccontando “fatti” e “misfatti” delle cosche mafiose.

Il giudice Paolo Borsellino, per sottrarre Rita alle vendette della mafia, la protegge e la sostiene portandola al sicuro in un appartamento a Roma e ne diventa come un padre rappresentando l’unico riferimento educativo e l’unica persona in grado di darle sicurezza e affetto dopo le minacce di morte della madre che non le perdonerà mai di essere diventata “ testimone di giustizia”.

L’aiuto di Borsellino, quindi, diventa determinante per Rita in questa sua difficile scelta, in considerazione anche della sua giovane età.

Ma il 23 maggio 1992 con la strage di Capaci viene ucciso Giovanni Falcone ed il 19 luglio dello stesso anno, con la strage di via D’Amelio, muore anche Paolo Borsellino.

Per la piccola, grande, Rita Atria è la fine perché i due magistrati rappresentano per lei il simbolo della lotta alla mafia.

Soprattutto la morte del giudice “buono” Borsellino fa cadere Rita nella totale angoscia e disperazione. Senza di lui Rita non può più vivere, soltanto Borsellino le dava sicurezza, protezione e fiducia.

Rita è consapevole di non avere più possibilità di salvezza e per sfuggire alla vendetta di Cosa Nostra, il 26 luglio, dopo soltanto una settimana dalla morte di Paolo Borsellino, si toglie la vita gettandosi dal balcone dell’appartamento in cui viveva rifugiata.

Mara Faggioli

Rita Atria (Partanna, 4 settembre 1974 – Roma, 26 luglio 1992) è stata una testimone di giustizia italiana.

 

Biografia

 

Rita Atria nasce da una famiglia mafiosa. A undici anni perde il padre Vito, mafioso della famiglia di Partanna, ucciso da Cosa Nostra. Sono gli anni dell'ascesa dei Corleonesi e della seconda guerra di mafia.

Alla morte del padre, Rita si lega ancora di più al fratello Nicola ed alla cognata Piera Aiello. Da Nicola, anch'egli mafioso, Rita raccoglie le più intime confidenze sugli affari e sulle dinamiche mafiose a Partanna. Nel giugno 1991 Nicola Atria verrà ucciso dalla mafia. Sua moglie Piera Aiello decide dunque di collaborare con la giustizia.

Rita Atria, a soli 17 anni, nel novembre 1991, decide di seguire le orme della cognata, cercando, nella magistratura, giustizia per quegli omicidi. Il primo a raccogliere le sue rivelazioni fu Paolo Borsellino al quale si legò come ad un padre. Le deposizioni di Rita e di Piera, unitamente ad altre deposizioni hanno permesso di arrestare diversi mafiosi e di avviare un'indagine sul politico Vincenzino Culicchia, per trent'anni sindaco di Partanna.

Una settimana dopo la strage di via d'Amelio, Rita Atria si uccise a Roma, dove viveva in segreto, lanciandosi dal settimo piano.

Rita Atria per molti rappresenta un'eroina, per la sua capacità di rinunciare a tutto, finanche agli affetti della madre (che la ripudiò e che dopo la sua morte distrusse la lapide a martellate), per inseguire un ideale di giustizia attraverso un percorso di crescita interiore che la porterà dal desiderio di vendetta al desiderio di una vera giustizia. Rita (così come Piera Aiello) non era una pentita di mafia: non aveva infatti mai commesso alcun reato di cui pentirsi. Correttamente ci si riferisce a lei come testimone di giustizia, figura questa che è stata legislativamente riconosciuta con la legge 45 del 13 febbraio 2001.

A Rita Atria

MARA FAGGIOLI

Erano pochi  i tuoi anni

ma immenso il tuo coraggio,

 

piccola, grande Rita,

 

circondati  dal buio

nascevano   i tuoi giorni

eppure,  indomita,

                      sognavi la luce.

 

Per un  mondo più onesto

senza soprusi né ingiustizie

contro tutti

                     hai lottato

ma tutti  ti hanno abbandonata,

perfino tua  madre  ti ha rinnegata!

 

Soltanto  Paolo (*)   accanto a te,

grande albero  a  darti riparo,

soltanto  Paolo,  unica tua  forza, 

unica  tua speranza

ma  solo  un istante bastò

per farlo  crollare.

 

Le tenebre  precipitarono

                                così

sul luminoso sole di Sicilia

anche il  tuo cielo

divenne cupo  e buio,

 

piccola,  grande  Rita,

 

la luce cercasti,

                   allora,

nel tuo celeste

                        volo d’angelo.

(*) Paolo Borsellino

MARA FAGGIOLI  da “Dulcamara” Ed. Ibiskos

1° premio silloge Concorso Letterario “La Tavolozza”

Premio Speciale “Mario Conti” al Premio Firenze-Europa

Per non dimenticare l'odore dei cedri... Falcone e Borsellino

L’odore dei cedri

fende l’aria

turba

inebria

avvolge gli animi.

 

Il silenzio macera gli odori

sale con la calura

distorce le sagome

saturando l’atmosfera irreale.

 

Un colpo di spugna.

 

Una manciata di secondi.

 

Vite inghiottite dai propri destini.

 

Odore di zolfo.

 

Fiamme assassine

lambiscono uomini

votati alla loro missione.

 

Brandelli di esistenze

appese a rami di cedro

asciugano austere nel sole di Sicilia

come un monito per chi resta

nulla è stato inutile

nulla è stato vano.

 

Si chiude il cerchio

di una fine annunciata

come un serpente a sonagli

che muore mordendo la propria coda.

 
Alle vittime innocenti

Giovanni Teresi

Dio ha accolto

il candido fiore

reciso e calpestato.

Piange sul sangue versato.

Il vento dell’odio

solleva la polvere nera

su ciò che ha creato.

E’ offeso, è deluso …

Ignoti passi cruenti

vagano nel fango

ignominia del mondo,

insanguinato da mano assassina.

Dio stringe nelle sue mani

l’innocenza recisa,

riscalda ancora le albe

e i tramonti,

continua ad amare …

Gira il globo avvolto dal vento

nel silenzio, nel suo duro cemento.

Dio è incredulo dell’assenza

del cuore, della mente.

Abbraccia le anime pure,

i fiori più belli

profumo della sua Luce

ch’è vera sola gioia di salvezza.

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

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